Non al denaro, non all’amore né al cielo.
Ricezione e selezione del pubblico in Guglielmo IX e l’Arcipoeta.
Una celebre definizione di Pio Rajna del 1928 ha bollato la poesia di Guglielmo IX come poesia schizofrenica, divisa a metà, dove convivono sia l’esaltazione (e probabilmente fondazione) delle virtù cortesi e del vassallaggio d’amore, sia l’inseguimento sfrenato, elogiato senza mezzi termini, del piacere e del sesso. In effetti, i giochi verbali e i meccanismi parodici della poesia guglielmina spostano continuamente l’asse della ricezione che congiunge l’autore con il suo pubblico (ideale o effettivo), con effetti che, nel presente studio, si vogliono comparare, si spera proficuamente, con la selezione ricettiva presente nella poesia dell’Arcipoeta.
- L’alternativa giullaresca.
Nelle vidas e nelle cronache, Guglielmo IX non spicca solo per qualità quanto più lontane dall’ideale di serietà e santità impersonato da un monarca come Ludovico il Pio, ma anzi con la Chiesa stessa viene a conflitto in più occasioni, e in due perfino scomunicato. Leggendo l’aneddoto riportato da Guglielmo di Malmesbury in occasione della sua seconda scomunica, si comprendono meglio le testimonianze che associano la vita e i modi del duca-trovatore a quelli di un demoniaco istrione, come quella, autorevolissima, di Orderico Vitale: «Hic [Guglielmo IX] audax fuit et probus nimiumque iocundus, facetos etiam histriones facetiis superans multiplicibus». L’atteggiamento irrisorio del duca si rivela quindi tratto accomunabile ai lazzi dei giullari, che, nella definizione della società medievale, si differenziano sostanzialmente per la loro indeterminazione e confusione: l’inutilità sociale è confermata dall’imprecisione con cui i chierici utilizzano quasi indifferentemente una messe pressoché infinita di termini, per di più preferendo due termini generici e polisemici come joculator e hystrio.
Sono celebri e numerose le condanne ecclesiastiche nei confronti dei giullari, a partire dalla stessa VII deliberazione del Concilio di Tours (813), e proprio questa insistenza, da parte delle stesse autorità, preme verso la preoccupata coscienza di una concorrenzialità della cultura giullaresca, specialmente quando l’istrione è continuamente legato all’immagine negativa della Corte, venendosi quindi a trovare «dans la lutte pour le contrôle idéologique du pouvoir qui se joue entre la cour et l’Église». In un’ottica ecclesiocentrica, ogni alternativa all’egemonia della Chiesa viene quindi a scontrarsi e sovrapporsi con quella che è, in effetti, l’alternativa, ossia il mondo giullaresco: qualunque tentativo di autodefinizione ed emancipazione, sia esso socio-culturale o politico, si connota più nei suoi elementi trasgressivi e diversi che positivi.
Il mélange costituito dalla figura e biografia di Guglielmo IX con il tipo del giullare si propone quindi come la rappresentazione di un preciso orientamento che cerca di svincolarsi dalla tradizione universalistica della Chiesa, finendo per spostarsi sull’unico «terreno […] rappresentativo, storicamente e per tradizione, di una potenziale alternativa», da cui però dovrà, in qualche modo, emanciparsi a sua volta nel richiamo all’arte e all’aristocrazia presente nella sua poesia.
Si capisce forse ancora meglio la posizione di Guglielmo IX se la si compara con quella altrettanto controversa ed eterodossa di Rainald von Dassel, arcivescovo eletto di Colonia e arcicancelliere di Federico Barbarossa, nella cancelleria del quale lavorò proprio l’Arcipoeta. Se l’atteggiamento complessivo tramandatoci da fonti e documenti non dà adito a dubbi sul suo rapporto con il potere ecclesiastico, il tipo è in un certo senso sdoppiato, poiché non fu egli stesso autore, ma committente dell’opera dell’Arcipoeta: dove per definire un tipo come quello di Guglielmo IX si può comparare vicenda politica (e biografica) con l’opera poetica, nel caso di Rainald bisognerà comparare la sua parabola politica con la poesia dell’Arcipoeta.
Ottimamente tratteggia la sua oratoria l’Arcipoeta quando lo definisce
Ulixe facundior Tulliane loqueris
columba simplicior nulli fraudes ingeris
serpente callidior a nullo deciperis.
dove la facoltà di Ulisse viene associata alla connotazione demoniaca del serpente, in un gioco di ambiguità e allusioni che evidentemente sarà stato concorde alla proprietà di Rainald stesso: non a caso, dallo stesso Giovanni di Salisbury, la sua è definita «impudenti scurrilitate verborum», e appare chiaro anche in questo caso come la condanna del vescovo si accompagni ad un violento paragone con i giullari (scurrae).
Se vale quanto detto per Guglielmo IX, anche in questo caso emerge dal testo dell’Arcipoeta e dalle fonti coeve come il tentativo di autonomia dall’egemonia ecclesiastica sia bollato senza mezzi termini e fatto confluire nella condanna al settore culturale in più aperto contrasto con la Chiesa. In effetti, i modi istrionici che sono stati notati nelle cronache relative al duca-trovatore sono sovrapponibili alle manipolazioni del linguaggio, polivalenti e paradossali, proprie dell’eletto di Colonia: l’amore per l’ambiguità verbale deve essere nato dalle lezioni di Adamo Parvipontano, a cui probabilmente può aver partecipato lo stesso Arcipoeta, se si è concordi nel pensare un rapporto di committenza saldato da anni di amicizia profonda.
È proprio nella libertà connessa all’atto verbale una delle più profonde condanne all’arte giullaresca, e la stessa scurrilitas è il peccato di colui che parla come un giullare: se la parola è il dono esclusivo e per questo più alto donato da Dio agli uomini, creati, secondo la Genesi, a sua immagine e somiglianza, il rovesciamento della parola, la sua disordinata manifestazione è bestemmia verso Dio e la sua stessa forma.
Se il tipo del giullare è connesso, nelle invettive più o meno mistificatorie dei suoi detrattori, ai personaggi che nella loro vita politica (e culturale) tentano di emanciparsi dalla presenza della Chiesa, bisogna anche notare come le stesse figure ecclesio-centrifughe non si riconoscano senza attriti comprese in esso. Come è stato accennato poco sopra, i frequenti richiami guglielmini alla forma e allo stile separano nettamente la sua opera, benché volutamente ambigua, dalla sfera dell’arte giullaresca.
Si prenda ad esempio l’inizio del primo vers:
Companho, farai un vers [qu’er] covinen
et aura·i mais de foudatz no·i a de sen
[…]
E tenhatz lo per vilan, qui non l’enten,
Appare subito chiaro come si stia giocando con diverse prospettive e punti di vista dalla stessa persona: il vers sarà sì più folle che assennato, come una forma di spettacolo istrionica, aperta al riso facile e immediato, lascerebbe intendere, ma questo carnascialesco rovesciamento di ruoli e di mondi è mediato da una precisa e altamente selettiva condizione di sufficienza; il vers, infatti, benché possa sembrare a prima vista uno scherzo, non è comprensibile da chiunque: è fatto come si deve, e quindi il villano, uso alla risata di piazza, non di corte, non potrà comprenderlo. La convenienza che tiene su il componimento lo solleva inesorabilmente da terra, ancora più dalla terra calpestata dal volgo. Quanto lontano dal senno potrà apparire il vers, tanto lontano sarà dalla comprensione immediata, non scontata, ma soprattutto nobilitante proprio dove è elitaria:
Del vers vos dic que mais ne vau
qui ben l’enten
, e n’a plus lau.
Si delinea meglio ora come la prospettiva culturale intrapresa da Guglielmo IX sia quanto di più lontana da una volgare identificazione con la peggior specie di giullare: se la sua vita e politica vagabonda, carnevalesca, sicuramente sopra le righe e fuori dalle classi è stata marchiata come i mestieranti che affollano le piazze e competono apertamente con il potere egemonico detenuto dalla Chiesa, la sua poesia è lontana tanto dall’uno, quanto dall’altro, orazianamente limata e lavorata dall’arte:
Ben vueill que sapchon li pluzor
d’un vers, si es de bona color
qu’ieu ai trat de bon obrador;
qu’ieu port d’aicel mester la flor,
et es vertatz,
e puesc ne trair lo vers auctor,
quant er lasatz.
Eu conosc ben sen e folor,
Proprio il saper conoscere e porre un limite tra sen e folor è la caratteristica più alta del mester di poeta: se nella figura autoriale si pongono i confini tra senno e follia (quindi, tra poesia e arte istrionica, tra originalità e condanna), ci si potrà muovere come meglio si crede tra l’uno e l’altro, senza confondere alcunché.
Ma una distanza simile viene anche presa dall’Arcipoeta, quando, con effetto volutamente goliardico, assume i caratteri tanto cari alla storiografia romantica di clericus vagans, in stanze emblematiche nella loro ripresa in due diversi componimenti: se la sua poesia conserva qualche tratto dalla materia di cui è originata, allora è giustamente poesia che sa di taverna, gioco e sregolatezza; nata da istinti immediati, dalla parte più ferina dell’uomo, conserva anche le caratteristiche di immediato spasmo di ventre condivise nel riso dei mimi. Ma se
mimi solent cameras vestras introire,
qui nil sciunt facere preter insanire,
l’Arcipoeta dice di non essere come coloro
qui curias intrem imprudenter,
sicut illi faciunt quorum deus venter,
non è un mimo, quindi, né con loro vuole essere confuso. La sua poesia, e più in generale quindi la sua figura, rispetta quei tratti di convenienza che lo tengono ben distante sia dalla taverna, sia dalla piazza esultante. È poeta che gioca con la parola, come il suo amico e committente Rainald, e in questo gioco irriverente con l’atto verbale sta il marchio di scurrilitas, ma rimane parola poetica, non scherzo del volgo, nata con lo studium e rifinita dal lavoro poetico, tanto che
Doleo, cum video leccatores multos
penitus inutiles penitusque stultos,
nulla prorsus animi racione fultos,
sericis et varii indumentis cultos.
La distanza è netta. l’Arcipoeta non è insolente, e soprattutto non è un parassita: la sua poesia è irriverente, ma conveniente; non ha bisogno della lingua e della penna per mangiare, né, lo ha detto prima, ha bisogno di lavorare manualmente o mendicare. Lo scurra impersonato dall’Arcipoeta è veramente «an alternative type of sage».
Connettendo i vari materiali, si nota come sia per Guglielmo IX che per Rainald von Dassel la politica sia vissuta come un rendersi indipendenti dalla presenza ecclesiale, e come tale presa di posizione, dal loro punto di vista, assuma i caratteri di una battaglia affrontata anche sul piano culturale, personalmente nella poesia del trovatore, attraverso la committenza per il secondo. In entrambi i casi, però, cambiando il punto di vista, si è visto come la politica della Chiesa ha associato i due personaggi alla forma pienamente alternativa di cultura, ossia, quella volgare dei giullari: svincolarsi politicamente e culturalmente dalla Chiesa equivale a far parte dell’universo altro rispetto al mondo clericale, l’unico universo sentito come alternativo a quest’altezza cronologica, e come tale in concorrenza. Ma in entrambi i casi, lo stesso universo giullaresco è sentito come estraneo, anche quando si scherza in maniera ambigua con le sue forme: si vedrà in seguito attraverso quali forme verrà selezionato il pubblico dei riceventi, e di che pubblico si tratti.
- I meccanismi della selezione: paradosso/ironia.
Che forme sono state adottate, quindi, per emanciparsi anche dall’universo giullaresco? Quale background tradiscono anche quando imitano ironicamente le forme volgari? Se la parola invertita, alterata, è considerata un tratto tipico dell’atto verbale istrionico, il paradosso insito nel verbo rimane comunque sempre conveniente al soggetto che tale paradosso esprime: d’altronde, cosa può offrire se non una bestemmia un individuo come il giullare che ha rinnegato i tratti umani, quelli più divini, quindi, che lo differenziano? L’attività dei mimi è tutta all’interno dell’aspettativa dei riceventi, la situazione ricettiva da loro creata impone una normale aspettativa del pubblico, sempre soddisfatta in virtù dell’immediatezza comica e della riuscita. Un meccanismo ben diverso viene offerto da Guglielmo IX e dall’Arcipoeta, che proprio su tale normalità giocano e deviano.
Si è già visto come nella loro opera poetica l’intento selettivo sia ben definito: capire bene non è di tutti e proprio questa selezione elitaria nobilita chi ben comprende. Si deve intendere, quindi, come la risposta non sia sempre concorde alle aspettative medie del pubblico, proprio perché dalla normalità della comprensione media tentano entrambi di sollevarsi. In un certo senso, nello schema emittente – messaggio – ricevente, possono inserirsi differenti filtri o se si vuole specchi atti a deformare la percezione come anche l’emissione stessa. Sintetizzando al massimo, forse si può proporre il seguente schema applicabile alla situazione presa in esame.
In una comunicazione, un emittente produce un messaggio destinato a un ricevente. In una situazione come quella poetica, ancor meglio dove il rapporto delineato col pubblico è parte integrante dell’azione letteraria, l’emittente produce, insieme al messaggio, una serie di segni che costituiscono il contesto normale della ricezione; tale contesto è integrato dall’azione percettiva del ricevente, che riesce così a creare un certo messaggio atteso (Messaggioa), concorde alla situazione contestuale creata dall’emittente e all’Erwartungshorizont costituito da «conoscenze preliminari» e «disposizione anteriormente acquisita». Tra Messaggio e Messaggioa può costituirsi una distanza anche sostanziosa, tanto più importante quando riguarda il ricevente, poiché da lui normalmente non attesa, anzi, deviazione dalla normalità che aveva prodotto Messaggioa, ma dall’autore non tralasciata quando, proprio nel contrasto costituito da Messaggio e Messaggioa/Contesto, inserisce le forme nuove del suo fare poetico. Nei due poeti presi qui in esame, è spesso l’ironia a costituire la causa deviante: l’ironia è utilizzata, nel suo scontrarsi con l’attesa ricettiva del destinatario, come metro per misurare la distanza dalla norma e la distanza tra autore e pubblico.
Si prendano ad esempio Farai un vers pos mi sonelh di Guglielmo IX e la Confessio dell’Arcipoeta. È stato sottolineato precedentemente come l’intento parodico sia una caratteristica chiave della poetica guglielmina: analizzando il vers seguente si cercherà di notare come, date certe premesse contestuali, il duca-trovatore devii dalle aspettative del pubblico a favore di una distanza dalle formulazioni cortesi dell’erotica. La struttura del vers è complessa, tanto che il manoscritto latore C, secondo principi di coerenza logica, preferisce eliminare le prime due coblas di argomento teoretico, introduzione al componimento dal tono chiaramente narrativo. L’argomento teoretico introdotto dovrebbe indirizzare il componimento verso il dibattito tra chierici e cavalieri:
donnas i a de mal conselh,
et sai dir cals:
cellas c’amor de chevaler
tornon a mals.
Donna non fai pechat mortau
que ama chevaler leau;
mas s’ama monge o clergau
non a raizo:
per dreg la deuria hom cremar
ab un tezo.
La norma propende verso posizioni formulate coerentemente con un’etica feudale del servizio amoroso; ci si attende la conferma dell’ideologia cortese, ma, proseguendo nelle coblas successive, si nota da subito un intento ben diverso: Guglielmo introduce una narrazione dallo spirito realistico e giocoso, quasi popolare, che mal si accorderebbe, preso singolarmente, con le attese instillate nel preludio. La narrazione stessa procede presentando tre temi fondamentali dell’ideologia cortese:
- l’amante cela la sua identità (coblas 3-5)
- l’ospitalità è un valore cortese (coblas 6-8)
- l’amore passa attraverso prove pericolose prima di essere raggiunto (coblas 9-14)
L’incognito e il silenzio sono normalmente elementi indispensabili per salvaguardare l’onore della dama amata: il poeta che vuole amare deve rispettare le norme del celar. Nella narrazione guglielmina, sono invece mezzi ingannevoli impiegati per raggiungere materialmente le gioie della dell’amore, anzi, i propositi di silenzio vengono puntualmente disillusi quando, alla cobla 3, fornisce dettagliate descrizioni delle dame, equivalenti pressappoco a nome, cognome e indirizzo. Il celar non è valore rispettoso dell’amata, ma stratagemma per la sua conquista.
Grazie al suo inganno, il protagonista viene ospitato presso le due cortesi dame: l’ospitalità, chiaramente, è legante geo-sociale dei rapporti feudali e risponde a un’etica di contraccambio che rende dinamico e duraturo il rapporto. Nel vers, diversamente, sia l’intento con cui viene offerta ospitalità, sia il contraccambio, rispondono ad esigenze puramente carnali. L’ospitalità e le sue norme non sono valori cortesi, ma il contesto dell’adescamento.
L’inganno viene messo a rischio dalla prova del gatto rosso, un espediente che può essere interpretato sia come elemento romanzesco, poiché prova l’eroicità e la dignità del protagonista di fronte all’amore, sia agiografico, poiché la tortura e il martirio minano la profondità del silenzio, mirando alla confessione verbale del protagonista. Entrambi gli intenti sono deviati, poiché il protagonista non prova certo la sua dignità di amante (è un trichadors de dompnas), né il silenzio cela una fede inattaccabile (il silenzio è funzionale alla conservazione di una testimonianza compromettente).
In questo vers, quindi, Guglielmo ha disatteso le aspettative del suo pubblico, aspettative createsi nel sistema segnico contestuale esercitato sia dalla forma impiegata nel preludio (débat), in opposizione alla forma narrativa impiegata successivamente (plazer/gab), sia dai contenuti cortesi allusi, devianti rispetto la norma a favore di una aperta e disincantata fruizione dell’amore. Come sottolinea Pasero nel suo commento,
in un sistema segnico al livello dei segni «generi letterari» (débat, plazer, gab), i contenuti denotativi di tali segni interessano in quanto supporti di contenuti connotativi riconducibili a un «metasegno» parodia. Tale dialettica fra denotazione (= normalità della situazione in cui il prodotto letterario viene classificato per la sua consumazione; normale «aspettativa» del pubblico) e connotazione (intento deviante la norma; parole) è inscindibile dalla situazione originaria all’atto della «produzione» del testo: l’infrazione della norma denotativa, che consiste nell’impiego «anormale» (choc) dei segni «generi letterari», non può essere compresa nella sua rilevanza, senza tener presente le motivazioni extraletterarie dell’infrazione stessa.
Tali motivazioni extraletterarie si basano sulla funzione esercitata da Guglielmo nell’ambiente e la sua volontà espressiva: in entrambi i casi, «costituisce l’istanza legiferante, e quindi stabilisce l’ambito di validità delle norme stesse».
L’incipit della Confessio è uno dei più conosciuti nella letteratura mediolatina:
Estuans intrinsecus ira vehementi
in amaritudine loquar mee menti.
L’eco è chiaramente solenne nella sua ripresa biblica e non difforme dallo stile atteso per una confessione: si noti come il genere sia e un genere letterario di incredibile successo in ambito cristiano (sarà superfluo ricordare esempi come S. Agostino o Abelardo), e uno dei sacramenti della religione cristiana. Con queste premesse, si capisce come lo spazio per lo scherzo sia poco, anzi, per non rendere vano lo sforzo del penitente, la Verità deve essere elemento imprescindibile. Invece, proprio quando le attese del pubblico sono già definite, stimolate dalla scelta del genere e dallo stile intrapreso, l’Arcipoeta, senza cambiare né l’uno, né l’altro, devia nei contenuti: l’effetto ironico prodotto dal contrasto tra forma e contenuto è tanto più grande quanto corrisponde alla distanza tra messaggio fornito dall’autore e messaggio atteso dal pubblico, influenzato dal contesto sacro.
Procedendo come per il componimento trobadorico, i temi su cui il meccanismo ironico si spiega sono:
- il genere/sacramento della confessione, che implica necessariamente
- la verità della stessa
I due punti sono strettamente collegati dal momento che lo stile (è poesia) potrebbe offrire il fianco alla menzogna, giacché, è noto, tutti i poeti mentono. Non solo: l’Electe Colonie di fronte al quale la confessione viene resa pubblica è proprio Rainald von Dassel, scomunicato e dai suoi nemici considerato a capo dello scisma del 1159. Ora, è possibile prendere per sincera la confessione di un poeta penitente che chiede perdono a un vescovo scismatico e scomunicato? Scendendo più nel dettaglio, si cercheranno di sottolineare i punti in cui la distanza tra propositi di pentimento e confessione effettiva sembrano maggiori.
I tre punti analizzati dall’Arcipoeta sono quelli di sregolato divertimento nel gioco, nel sesso e nel vino. Per il primo punto, l’ironia è palese:
Mihi cordis gravitas res videtur gravis,
iocus est amabilis dulciorque favis.
Rileggendo questi versi insieme ai primi due citati poco sopra, si nota come l’ironia giochi anche su binari paralleli: quanto prima l’anima era il palcoscenico di un peccato ormai insostenibile, il cui pentimento agiva come fuoco nella coscienza del poeta, adesso la leggerezza di spirito è svelata nella sua interezza; per di più, rovesciando un auctor autorevole come Gregorio Magno, la situazione di morte spirituale non è nemmeno così amara, anzi, dulcior favis.
Nel dolcezza del peccato sta anche il pentimento sessuale, ma anche in questo caso l’attesa non è soddisfatta:
morte bona morior, dulci nece necor;
meum pectus sauciat puellarum decor,
et quas tactu nequeo, saltem corde mechor.
Lo stile si apre anche ad echi dal Cantico dei Cantici, ma l’intento non è mistico: l’amore non viene ricondotto all’interno dell’amore divino, e la santità dell’anima viene profanata attraverso l’adulterio.
Ancora:
Meum est propositum in taberna mori,
ut sint vina proxima morientis ori.
Tunc cantabunt letius angelorum chori:
“Sit Deus propitius huic potatori”.
Il gioco di parole tra potatori e peccatori della fonte è tra i più famosi della letteratura medievale, e sembra chiaro da subito come la blasfemia allusa non sia consona al pentimento canonico. In più, proprio quando, nel momento massimo della confessione, l’Arcipoeta dovrebbe rinnegare con tutto se stesso la smodatezza, trova in essa la massima giustificazione: grazie al vino,
Mihi nunquam spiritus poetrie datur,
nisi prius fuerit venter bene satur;
dum in arce cerebri Bachus dominatur,
in me Phebus irruit et miranda fatur.
È il vino che permette al poeta di cantare, ma «tale vinum generat copiam sermonum», quindi permette la confessione stessa: nella negazione del vizio, condizione normale per la confessione, l’Arcipoeta introduce anche la sua celebrazione.
In sostanza, le forme che palesano la differenza tra il livello artistico di Guglielmo IX e dell’Arcipoeta stanno in quel meccanismo ironico che, sfruttando la distanza tra intento contestuale e messaggio effettivo, creano un forte contrasto nel pubblico, costretto ad operare una scelta: o abbassare le difese e condividere lo choc introdotto dall’autore, oppure rifiutare in blocco la parodia. Si vedranno in seguito proprio gli effetti di questa selezione, ossia, quale tipo di pubblico intendono selezionare.
3. Gli effetti della selezione: ricezione
selettiva ed esclusiva.
Si torni a Companho, farai un vers di Guglielmo IX:
Companho, farai un vers [qu’er] covinen,
et aura·i mais de foudatz no·i a de sen,
et er totz mesclatz d’amor e de joi e de joven.
E tenhatz lo per vilan, qui no l’enten,
qu’ins en son cor voluntiers [res] non l’apren:
greu partir si fai d’amor qui la trob’ a son talen.
Poco prima si è sottolineato come l’aspetto giullaresco del duca-trovatore sia solo una maschera, poiché proprio l’accenno al vilan separava il componimento, benché folle, dal pubblico dei giullari. Di che pubblico si tratta, quindi? L’accenno alla joven non può che condurre la mente ai saggi sociologici di Erich Köhler, ma le posizioni che sono state intraprese nel presente studio portano necessariamente a conclusioni ben diverse. Partendo dallo slittamento semantico presente nel passaggio dal lat. iuventus al prov. joven, Köhler sottolinea come nel secondo sia racchiuso «un insieme di qualità morali ed estetiche che è difficile cogliere con precisione», rendendo il termine qualcosa di molto diverso dall’indicazione cronologica del termine latino, ma nel suo studio l’effettiva classe di destinatari, i companhos di Guglielmo IX o generalmente i jovens, finisce per confluire nella collettività dei marginal men descritti da Kurt Lewin come giovani “senza patria”, che nel periodo della loro prolungata giovinezza e precaria sicurezza finiscono per raggiungere «il limite superiore di un ceto sociale o di una minoranza», ma senza riuscire «a passare nel ceto immediatamente superiore o nella maggioranza». Ora, se si vogliono accettare le proposte formali che si sono delineate nel § 2 e soprattutto la ricostruzione che si propone per il milieu culturale del Poitou, non si potrà sostenere una posizione che mira a considerare Guglielmo IX come l’unico capace di produrre, ma a questo punto anche intendere, poesia con mezzi ironici, destinato a esibire allusioni a un pubblico di uomini al margine che non condividono, nemmeno in minima parte, il suo background culturale. Probabilmente, le prove e i documenti per descrivere il suo entourage sono nello stesso successo dei suoi versi.
Le informazioni relative alla formazione letteraria dei primi trovatori sono scarne, fondate più sul riscontro interno ai testi, costituenti le vidas e le razos, che dal controllo sistematico e incrociato delle fonti, legandosi soprattutto, come ovvio, al problema delle origini della lirica provenzale. Guglielmo IX non si sottrae da queste nebbie: come per ogni erede legittimo, la sua formazione è essenzialmente giuridica e militare, e l’accenno all’attività di un maestro privato a corte è di controversa veridicità. Ma se non si possono ricostruire direttamente gli elementi atti a definire la sua formazione prettamente letteraria, non resta che volgere lo sguardo ad elementi più indiretti, e a volte anche obliqui.
La famiglia respirò da sempre un’attenzione particolare ai fatti letterari: il nonno Guglielmo V d’Aquitania, detto il Grande, come ci riporta il suo panegirista Ademaro di Chabannes, fondò insieme a Fulberto di Chartes la scuola della cattedrale di Poitiers e amava talmente tanto la cultura da addormentarsi sui libri dopo una notte insonne di studio. Proprio St. Hilaire di Poitiers nel corso del XI sec. diventò uno dei centri più importanti per la formazione scolastica nel Midi, soprattutto quando, dal 1024 al 1026, a dirigerla è un allievo di Fulberto, Ildegario, il quale mandò alla scuola anche numerosi codici. I rapporti della scuola con la corte di Poitiers furono molto stretti: basti ricordare che i conti di Poitiers erano anche abati di St. Hilaire, e quasi sicuramente si potrà affermare che le famiglie degli allievi facevano parte della clientela del conte. A titolo esemplificativo, si potrà citare di un tale Thibault, protetto della contessa Agnese, moglie di Guglielmo il Grande, che nel 1068 venne scelto come cancelliere da Guglielmo VIII, futuro padre di Guglielmo IX: questo Thibault ebbe un figlio, di nome a sua volta Guillhem, verosimilmente coetaneo del trovatore, e non è forse troppo fantastico immagine un percorso scolastico insieme, data la stretta e duratura collaborazione tra le due famiglie, soprattutto considerando come Guglielmo IX, di ritorno dalla crociata del 1099, rese proprio Guillhem prevosto di Poitiers.
Se, come di è detto poco sopra, non è facile affermare senza alcun dubbio una formazione scolastica a St. Hilaire per quanto riguarda Guglielmo IX, certo non si può negare come lo stretto legame con la corte, la vicinanza e l’importanza del centro nel Poitou siano elementi che fanno propendere almeno verso una generica influenza. Si rilegga adesso il v. 5 citato poco prima: sia considerato villano chi non lo capisce bene e chi non lo impara volentieri a memoria. Non è necessario ricordare quanto la memoria pesi nell’istruzione medievale, e si noti come qui sia necessariamente messa in relazione con il non-essere villano: come si nota nello stesso Donat Proensal, villano (vilas) è il villico (vilicus) o genericamente l’illetterato (indoctus), quindi non sembra arbitrario leggere l’accenno alla memoria par coeur come un riferimento a un livello di istruzione scolastica di livello superiore, quale impartita proprio a St. Hilaire, istruzione che probabilmente, come dimostra Marco Bernardi, coniugava l’apprendimento della grammatica con quella del canto.
Se prima si è cercato di dimostrare come l’opera di Guglielmo IX, benché associata dai suoi detrattori all’attività giullaresca e con essa continuamente (e volutamente) in contatto ambiguo, sia in realtà prodotto raffinato e raffinante, avulso dalla piazza dell’istrione anche quando ne imita le mosse, quello che ora si vorrà sottolineare è se, di fianco a un’altra importante parte della cultura ecclesiastica come la scuola, Guglielmo IX offre o no, anche in questo caso, una proposta alternativa, se cioè la sua attività poetica è altro dalla cultura scolastica. Riprendendo il discorso sulla forma ironica creante contrasto tra messaggio contestuale e messaggio, anche in questo caso verrebbe da affermare che, dove l’apprendimento memoriale si situa nelle metodologie scolastiche, ora sembra proprio veicolare un messaggio diverso da quello tradizionale: non grammatica e canto, ma amor, joi e joven. Non solo: la fonte classica di maggiore diffusione, soprattutto nell’insegnamento scolastico, per quanto riguarda l’arte amatoria è naturalmente Ovidio, anche dove reinterpretato, come nei poeti della Scuola di Loira. Documentati rapporti mostrano i contatti tra i primi con la cultura del Poitou: il vescovo di Poitiers Pietro II è in stretto contatto con Baudri di Bourgueil e Ildeberto di Lavardin, e anche Guglielmo IX dovette conoscerli. Gli elementi ovidiani reinterpretati dai poeti della Loira mostrano un amore completamente diverso dalla novità trobadorica: non esiste il vassallaggio d’amore, non esiste alcun servizio amoroso, non è presente alcun raffinamento; soprattutto, l’amore sensuale è escluso. L’immagine che si ricava dall’amore secondo Guglielmo IX è radicalmente opposta, quindi, al contesto culturale mediato sia dalla poesia clericale che dall’istruzione scolastica: come nota Gerald Bond, Guglielmo
seems to have distanced himself from these other cultures [forze politiche, attitudini religiose, valori culturali] and to have forged a new courtly style around himself that combined elements of the competing ideals of warrior and courtier.
Chi è compreso quindi nella selezionata cerchia del trovatore? Proviamo a procedere per negazione: non è vilan, ma è intriso di abitudini e modi cortesi; non è illetterato, anche se la poesia è veicolata dal volgare, e allude a una formazione scolastica, perché la comprensione si situa necessariamente su un livello che non prescinde, anche dove la nega o la rovescia, una cultura di tipo scolastico; non è incapace di amare, sia dove l’amore rappresenta un valore rovesciato di virilità guerresca (è pur sempre conquista di cui vantarsi), sia dove l’amore prende le mosse da un diverso indirizzo culturale, poiché veicola sentimenti orgogliosamente cortesi del tutto nuovi.
Le modalità “istrioniche” del gioco verbale insito nella poesia guglielmina selezionano, attraverso il contrasto tra contesto e messaggio, un pubblico che necessariamente deve condividere i valori “deviati” presentati, ma deve anche conoscere i valori “normali”, in quanto altrimenti non sarebbe possibile alcun meccanismo ironico: l’autore non soddisfa l’aspettativa di un pubblico, il quale è costretto a scegliere se condividere la deviazione oppure essere escluso e rimanere nella norma allusa dal contesto, provando il fastidio della non-integrazione quando le sue attese vengono frustrate. I companhos, quindi, vengono a costituire un pubblico selezionato dove compreso dall’ironia; la funzione di Guglielmo IX all’interno del gruppo è definita dal gap della deviazione stessa: maggiore è il contrasto, maggiore è l’autonomia dell’autore all’interno del gruppo di condivisione (più deviazioni può permettersi, più è in grado di agire liberamente), ma dove l’ironia, lo si è detto prima, costituisce un elemento e di selezione e di complicità, maggiore sarà anche il grado di solidarietà fra autore e pubblico. In questo sembrano non soddisfare le conclusioni a cui arriva Köhler, poiché mal si adatta a tale raffinato gioco culturale il trasferimento con qualche correzione proposto, dal Nord-Ovest della Francia, secondo i documenti di Duby, al milieu del Sud, che vorrebbe Guglielmo IX circondato da «un groupe de turbulence prolongée, exclu par tant de conditions sociales du corps des hommes établis, des pères de famille, des chefs de maison, cette marge instable qui suscita et soutint à la fois les entreprises de la croisade, l’engoument pour les tournois, la propension au luxe et au concubinage».
Quanto si è detto finora su Guglielmo IX può essere applicato, mutatis mutandis, al rapporto tra l’Arcipoeta e il suo pubblico. Si è già visto precedentemente, in parallelo con Guglielmo IX, come la poesia dell’Arcipoeta alluda alla maniera goliardica, senza però confondere l’arte con l’attività degli istrioni, anzi, selezionando il proprio pubblico in maniera netta da pratiche sconvenienti a corte. Si leggano le seguenti stanze:
Sepe de miseria mee paupertatis
conqueror in carmine viris litteratis
laici non sapiunt
ea que sunt vatis
et nil michi tribuunt, quod est notum satis.
Con laici si intende ovviamente un pubblico escluso dalla cultura ecclesiastica, non in grado di comprendere il latino: la classe culturale cui allude l’Arcipoeta sembra quindi convergere con il pubblico contestuale cui si rivolgeva nella Confessio, quando ironizzava su sacramenti e testi sacri. Evidentemente, all’interno della cultura ecclesiastica va selezionato un pubblico ancora più ristretto, in cui la conoscenza del latino è solo il primo passo per una comprensione totale, pubblico necessariamente da individuare alla corte di Rainald von Dassel. E infatti, l’Arcipoeta stesso dichiara come la generosità sia uno dei valori fondanti del rapporto interno al gruppo selezionato:
A viris Teutonices multa solent dari,
digni sunt pre ceteris laude singulari
……………………………………………….
……………………………………………….
Presules Italie presules avari,
pocius ydolatre debent nominari;
vix quadrantem tribuunt pauperi scolari:
quis per dona talia poterit ditari?
Ma non è una generosità diffusa ovunque indistintamente: è la generosità dei vescovi germanici, e tra di essi Rainald è il più grande (commendetur largitas presulum largorum; / electus Colonie primus est eorum). L’invettiva verso i vescovi italiani, in particolar modo chiaramente i vescovi romani e alessandrini, finisce per esaltare la Chiesa tedesca, su tutti proprio la ruina mundi Rainald von Dassel.
Riassumendo i dati raccolti come si è fatto con Guglielmo IX, si nota ancora una volta come l’ironia agisca nel contrasto tra messaggio atteso e messaggio, separando il pubblico condividente i valori “deviati” da quello infastidito dalla bestemmia. Emerge quindi come lo statuto dei riceventi sia particolarmente notevole, poiché insieme all’Arcipoeta devono condividere sia una cultura superiore, ben oltre la semplice conoscenza del latino, in grado di cogliere, insieme all’ironia, l’allusione e il gioco verbale, ossia l’amore per la parola sofisticata e la polisemia quale impartito nella logica diffusa a Parigi da Adamo Parvipontano, sia una largitas tutta transmontana che lega la generosità alla poesia in un rapporto di committenza che permette arte e sostentamento. Chi non è compreso in tutto ciò è laicus, cioè, non è in grado di capire le parole dell’Arcipoeta, come i contadini, i soldati, i mendici cui allude nei suoi versi. In questa selezione strettissima, in cui la condivisione di valori è legata culturalmente e socialmente, si chiarisce come l’unico membro compreso effettivamente nel pubblico dell’Arcipoeta sia solo Rainald von Dassel: è proprio nel rapporto di committenza che li lega l’altissima selezione operata al livello ricettivo, dove la complicità permette all’Arcipoeta di poter creare quanto contrasto vuole tra contesto e messaggio.
Si possono notare diversità negli effetti della selezione operata da Guglielmo IX e l’Arcipoeta: se il primo seleziona, nei suoi versi, una classe in grado di comprendere sia la norma da lui allusa, sia i nuovi valori cortesi che si trova, per contrasto, a mediare, dove il gruppo di companhos a cui si rivolge è compreso dal meccanismo ironico, il secondo seleziona, all’interno di un gruppo di potenziali riceventi in grado di capire i suoi versi, l’unico membro capace di cogliere la totalità delle sue allusioni e le novità culturali che si trova a mediare. Concludendo, si possono riassumere i due effetti con la terminologia introdotta nel titolo, ossia, una ricezione selettiva per quanto riguarda il duca-trovatore, e una ricezione esclusiva per quanto riguarda l’Arcipoeta. È forse in una prospettiva più ampia, cosmopolita, che si deve leggere, però, l’azione dell’Arcipoeta, il quale se da una parte rischia di rimanere schiacciato proprio dall’alta selezione imposta da un rapporto di committenza, dall’altra trova altrove la completezza del suo messaggio; insomma,
what was this “public”? The assembled bishops of Burgundy […] would have understood the Archpoet’s work as an “encomium of Reinald” and an “appeal” to “return to their allegiance to him.” Is it possible, in short, to reduce so cosmopolitan an author to the level of a provincial panegyrist?
doors.txt;10
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